Si avvicina la celebrazione del XVII congresso ordinario della Unione delle Camere Penali Italiane, fissato per il 19-21 ottobre prossimi a Sorrento; congresso nel quale verrà scelta la nuova Giunta e soprattutto l nuovo presidente.
Si tratta di un appuntamento assolutamente nevralgico sia per il momento che vive la avvocatura penalistica nazionale e sia perché, vista la scadenza naturale del mandato della Giunta attuale, si tratterà di individuare la nuova dirigenza e soprattutto di concorrere a determinare la linea politica che quella dirigenza terrà nel corso dei prossimi anni.
Ovviamente, affronteremo i temi spiccatamente politici della questione anche con successive pubblicazioni.
Ci piace, tuttavia, introdurre l’evento riportando integralmente – e poi anche in nota – l’articolo, apparso sul quotidiano “Il dubbio” del 24 luglio scorso, del Segretario della UCPI, Avv. Francesco Petrelli che spiega le ragioni del titolo dato al Congresso e ne descrive la fisionomia che assume in questo momento storico.
«IL BUIO OLTRE LA SIEPE …
La difesa delle garanzie nell’epoca dei populismi.
“Il Buio oltre la siepe” è il titolo che abbiamo dato al XVII° Congresso ordinario dell’Unione delle Camere Penali che si terrà quest’anno a Sorrento. Un titolo che ricorda il famoso romanzo con il quale la giovane scrittrice americana Harper Lee vinse nel 1960 il premio Pulitzer. Erano gli anni delle lotte civili contro il segregazionismo e per i diritti civili dei neri d’America. L’avvocato Atticus Finch combatte nell’Alabama sudista e razzista la sua battaglia in difesa del “negro” Tom Robinson, accusato ingiustamente di essere stato l’autore di una violenza sessuale nei confronti di una giovane bianca. Senza tuttavia riuscire a salvarlo. Tom Robinson finirà infatti sulla sedia elettrica dopo che una giuria bianca, prevenuta e razzista, decidendo contro ogni evidenza emersa nel corso del processo, condannerà a morte il giovane nero.
“Il buio oltre la siepe” non è il titolo originario del romanzo, ma evoca compiutamente l’atmosfera di sospensione nella quale l’intera vicenda si snoda e l’opprimente condizione di incertezza che ne domina l’orizzonte. Nell’Alabama in cui difendere un “negro” è una cosa riprovevole, le conquiste civili degli anni ‘60 sono ancora un miraggio tanto lontano che Atticus Finch, nel prendere le difese dell’accusato, dice alla giovane figlia, perplessa di una simile irragionevole scelta, che “non è una buona ragione non cercare di vincere per il semplice fatto che si è battuti in partenza”. Verranno poi il Civil Rights Act (1964), il Voting Rights Act (1965) ed il Fair Housing Act (1968), dimostrando che anche quella strenua difesa, abilmente condotta in quello sfortunato processo segnato dal pregiudizio, aveva in sé una qualche buona ragione. “Il buio oltre la siepe” non è dunque metafora di un male assoluto nascosto oltre il limite dello sguardo, bensì la metafora di una condizione che impedisce di decifrare il futuro e, con la comprensione di quel futuro, di cercare di porre rimedio alle ingiustizie del presente. Ciò che oggi è infatti visibile al nostro sguardo e la volatilità del presente, la sua continua reversibilità, e la conseguente impossibilità di prevederne gli sviluppi. Ciò che viene dichiarato come inevitabile non si fa avanti, ciò che avviene non si era invece mai presentato. Ciò che sembrava imminente svanisce e ciò che era ancora nel nulla assume le fattezze inequivoche della attualità e della realtà. Questa condizione di “buio” che sembra oggi propria della percezione dell’ “oltre” è ciò con cui dobbiamo fare i conti. Non il Male, ma la sua incoerenza e la sua nuova terribile banalità. Non il Potere, ma la sua declinazione secolarizzata, che volge in pura e ottusa forza. Non l’Ideologia, ma la mancanza delle idee come vanto. Il nesso neurologico profondo che corre fra le parole e il pensiero fa infatti sì che a parole elementari e banali corrispondano pensieri banali ed elementari. Che gli slogan, le parole d’ordine e i luoghi comuni, che corrono veloci sui social, sostituiscano la forza e la libertà del pensiero. La banalizzazione prende così il posto dell’elaborazione, chiudendo in apparenza ogni possibile spazio al confronto. Tuttavia, rispondere con il pathos dell’antipopulismo al pathos del populismo significa instaurare dinamiche recessive destinate ad un inevitabile fallimento. Quando infatti nel dialogo di una collettività prevalgono i valori del pathos, logos ed ethos sono destinati a soccombere. Preservare questi valori nell’epoca dei populismi significa invece fermare proprio quella cultura recessiva che tipicamente alimenta le politiche illiberali e autoritarie, dentro e fuori il processo penale. “Difendere le garanzie nell’epoca dei populismi” è per questo una cosa certamente difficile, ma è la sfida che ci attende, consapevoli che in un mondo così mutato usare le stesse lenti e gli stessi strumenti del passato è forse la cosa più semplice e più istintiva che viene da fare, ma anche quella che meno serve alla soluzione dei problemi. A volte il solo fatto di avere uno strumento a portata di mano ci fa credere che sia proprio quello lo strumento più adatto a cambiare il mondo. Come scriveva Wittgenstein: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”. Mentre oggi per analizzare la realtà e per affrontare i nuovi complessi problemi che essa ci pone servono strumenti meno vecchi e banali ed occorrono analisi più sottili e più profonde. Dobbiamo fare infatti i conti con “le magistrature” che hanno posizioni assai diverse circa i processi di trasformazione della giustizia penale (dalle parole d’ordine populiste della corrente davighiana, alla tutela delle garanzie, ed ai rapporti con la politica), e con “i governi” e con “i parlamenti” che spesso si divaricano in ordine a scelte di campo qualificanti (dalla gestione dell’immigrazione, alla riforma della legittima difesa), e con le diverse variegate forme di “informazione” e di “comunicazione”, con una realtà “molecolare” che si scompone e si ricompone quotidianamente, che apre e chiude spazi di intervento e di interlocuzione. Sarebbe sciocco, dunque, e per nulla ragionevole, sparare alla cieca contro quel “buio”, mentre conviene delineare fra le ombre ogni possibile sagoma di interlocutore, evitando di rimanere schiacciati nell’angolo di una sorda opposizione che non farebbe fare un solo passo in avanti all’avvocatura sulla strada della difesa dei valori fondanti della convivenza civile, dei diritti di tutti i cittadini e delle garanzie degli ultimi, dai migranti ai detenuti condannati e in attesa di giudizio, e della tutela della pari dignità di ogni essere umano. Come ha ricordato Beniamino Migliucci, “in una democrazia liberale gli elettori scelgono giustamente dove andare, ma saggiamente, in uno Stato di diritto costituzionale, principi, diritti e garanzie devono restare la bussola che impedisce a tutti noi di perdersi in quel viaggio”. Ed è per questo motivo – come ci è già capitato di dire all’indomani della pubblicazione del “contratto di governo” – l’Unione intende raccogliere attorno alla sua voce tutte le voci più autorevoli dell’accademia, della politica, della società e dell’informazione, confrontandosi con tutte le forze di governo e di opposizione, e con tutti coloro che nella magistratura e nei suoi organismi rappresentativi abbiano una idea ancora democratica e progressiva delle garanzie e del processo come patrimonio inalienabile di tutti i cittadini, che in uno stato di diritto non può certo trasformarsi in uno strumento illiberale ed oppressivo, sottratto a bilanciamenti e a controlli. Sappiamo bene che si tratta di un percorso complesso, da sviluppare al di fuori di ogni retorica, armati di un sano pragmatismo. E di una sfida minoritaria difficile e incerta che sconta un’onda contraria, alta e lunga, ma diversamente da Atticus Finch crediamo che non esistano sfide che riguardano i diritti e la dignità delle persone nelle quali si è mai “battuti in partenza”.
Francesco Petrelli»