Chi era Gaetano Sardiello?

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La nostra Camera Penale è intitolata all’insigne avvocato Gaetano Sardiello.

Ma il nostro ricordo di chi sia stato Gaetano Sardiello rischia di sfumare, pur al cospetto della assoluta fama del nostro predecessore, per il tempo che è trascorso (nacque, infatti, nel 1890 e morì nel 1985).

Per questa ragione abbiamo ritenuto di riportare alcuni passaggi del suo libro “Il viandante e la via” che raccoglie alcune riflessioni sulla attività forense svolta. Pur rappresentando che la vita sociale e politica dello stesso è stata così complessa e proficua da non potere essere descritta con poche battute.

Questi passaggi (che riporteremo anche in pubblicazioni successive) appaiono di fondamentale importanza per comprendere cosa fosse la professione forense alcuni decenni or sono; ma anche per trarre degli spunti assolutamente significativi sullo svolgimento della stessa nella attualità.

Di assoluto interesse la premessa del libro (che verrà di seguito riportata) che raccoglie un messaggio inviato “al più giovane avocato d’Italia” (è questo il titolo) a mezzo del quale l’Autore lo instrada su ciò che lo aspetta nella intrapresa attività professionale. Un insegnamento ancor oggi proficuo ed attuale.

 

«Al più giovane avvocato d’Italia.

 A te posso chiedere che mi ascolti.

Non pensare che io ti offra ancora pagine della grande, della tradizionale letteratura forense. Ne sono fiorite a migliaia, specie in questo decennio sotto le folgori e la bufera.

Per una voce che annunziava la fine dell’eloquenza forense, volumi di arringhe testimoniavano, col valore dei maestri, la gloria più nuova del Foro.

Per un’altra che diceva superflua l’opera dell’avvocato, nuovi libri si aggiungevano agli antichi per ricordare gli errori contro i quali in ogni tempo l’avvocato, con varia fortuna lottò; per ammaestrare, per esaltare.

Per ogni attacco cento difese, per ogni funebre rintocco uno scampanio di vittoria.

E ancora continua.

Se la grande ansia incombe tuttavia (che sarà della funzione dell’avvocato? Che sarà della eloquenza forense?) non è perché di esaltazioni o di ammaestramenti ci sia ancora bisogno.

Certo, né quelle né questi io potrei o saprei darti.

Queste pagine sono un’altra cosa.

(…)

Venticinque anni dal giorno che un uomo, e vorrei dire un fanciullo – sorretto e insieme sgomento, come forse ora tu sei, dal monito e dall’esempio dei maestri – si sentì come oppresso dal peso di una responsabilità troppo grave, come disarmato di fronte ad un rischio misterioso, varcando per la prima volta in veste di patrono la soglia di un’aula di giustizia; venticinque anni fra dottrine in contrasto che si evolvono ed evolvendosi si smentiscono; fra codici e leggi che si susseguono, rimandandoci a scuola ogni momento; fra processi che si moltiplicano mettendoci innanzi, ad ogni passo, visioni di mondi spirituali di una complessità  perturbante e di una vastità sconfinata; venticinque anni alla sbarra, sono bene una tappa.

(…)

Ma tu dici: a che giova? Se non sai intonare l’inno né dare l’insegnamento, che cosa mi offri?

So donde viene la tua parola.

Tu hai per te tutta la vita, e questa è ancora tutta avvenire. Sogni la grande arringa e le signore alla tribuna, che applaudono. Sogni soltanto la vetta e, per raggiungerla, vuoi marciare al suono delle fanfare e modellando già il passo su quello dei generali.

Divino abbandono della giovinezza!

Io non voglio distoglierti dalla tua visione, né fermare il tuo passo.

Voglio dirti soltanto che il successo può dare anche la gloria; ma forse la bellezza più viva dell’opera nostra non è nell’ora dell’applauso che potrà un giorno inebriarti, nella grande vittoria che un dì potrai conquistare.

Vorrei che tu potessi interrogare ad uno ad uno quei maestri, dei quali il fascino più di conquide.

(…)

Tutti e ciascuno ricorderebbero forse una parola ignorata dai più o rimasta del tutto nell’ombra, come un fiore che l’anima vuole soltanto per sé.

(…)

Voglio dirti che, di qua e di là dal successo, sono, pei grandi e per gli oscuri, una gioia ed un orgoglio che vengono dall’essenza della nostra opera: da questo sapersi donare, da questa abitudine (umile la parola, ma pure densa di un valore etico raro) di sapere protendere il cuore e la mente, vincendo stanchezze e sconforti, alle ferite dell’onore, della libertà, allo sconsolato patire dei vinti.

Vengono dal ricambio generoso di questa abitudine per cui nel tuo spirito si aduna – e sempre più lo affina – la più varia e più ricca esperienza delle verità della vita, delle vicende e dei destini delle anime, che più nude si mostrano sotto gli impeti ciclonici del bene e del male. E se tu vedi ogni giorno sempre più levarsi verso di te gli sguardi di tanti che non conosci, ma che pare ti vogliano leggere dentro perché ti hanno veduto, udito anche una sola volta parlare in piedi, diritto, in nome di un sentimento o di una ragione; quello è il riconoscimento – che non ha pagelle e diplomi, perché anch’esso è espressione di anime – di questo tuo privilegio spirituale che ti saluta padrone di una forza superba – la parola interprete della vita di tutti – che i più possono soltanto invidiarti.

Gioia senza fasto, orgoglio senza alterigia; che, nel grande agone, possono essere di tutti e di tutte le ore.

E perciò questa via, che tu ora fiero e sognante intraprendi, questa via della tua, della nostra fatica, che oggi ti pare valga soltanto per la meta che è in fondo e lontana, è invece tutta, e sin dai primi passi e in questi forse di più (chiedilo a quanti già ne sono lontani …) tutta così bella, fra ombre e luci di calcolo e di passione, di dottrina e di fede, di scienza e di arte; fra fantastici intrecci di rovi e di rose nudriti delle lacrime amare e dalle commosse speranze di cento anime; tanto bella che – vedi? – anche un oscuro viandante non può negarsi il piacere di fermare come può, con pochi tratti a matita, alcune fra le immagini che lungo il cammino più vive gli balzarono agli occhi o gli restarono più lungamente nel cuore.

Io non voglio distoglierti dalla meta, né voglio fermare il tuo passo.

Voglio dirti che pure sul sentiero più oscuro, forse anche appena già vai, tanta vita, tanta bellezza possono fiorirti attorno.

Sapere sentire da ora – e pure penando – quella vita: sapere arricchirsi – e pure a fatica – sul limite dell’ombra, di una visione di luce: ecco il segreto. E la chiave di questo, la passione.

Porterai sulla vetta, che tu sogni e dove mi piace pensarti un giorno, l’esperienza che più giova: quella dell’alba e dello stento.

E se ti accada di fermarti prima, avrai sempre nel cuore il tesoro che l’umanità di un poeta ha detto il tesoro degli umili, ma senza del quale neppure esiste l’eroe: la ricchezza della vita profonda.

Ove questa, come il vento della buona battaglia, non la gonfi e sospinga, anche la toga sugli omeri può sembrare una vela già stanca, che vuol essere presto ammainata».

Gaetano Sardiello, Il vandante e la via, note a matita di un penalista, edizioni “La toga” – Napoli (cit. pagg. 1-9).


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