Riportiamo di seguito un paragrafo del libro di Gaetano Sardiello, Il viandante e la via, in cui l’insigne penalista reggino rievoca la figura di due suoi grandi predecessori: Biagio Campagna e Demetrio Tripepi.
E rievoca, sopratutto, vicende storiche e giudiziarie che partono dalla seconda metà del XIX secolo per arrivare ai tempi in cui lo stesso Sardiello operava.
Non vogliamo anticipare nulla; ma la descrizione che l’Autore fa delle due figure ci riporta indietro di più di un secolo facendoci comprendere cosa sia stata la Avvocatura reggina … ed anche cosa sia stata la nostra città!
«Biagio Camagna e Demetrio Tripepi
Un ventennio di fervida vita forense e, per il costume del tempo, di tutta la vita della mia città si è svolto intorno ai nomi di due grandi avvocati: di Biagio Camagna e di Demetrio Tripepi.
Quelli della mia generazione hanno trovato il primo ancora maestro del Foro; dell’altro non hanno avuto alla sbarra l’insegnamento chè, giovane d’anni e di forze, il crollo della sua città lo travolse, in un’alba tremenda di morte.
Ma il segno che Demetrio Tripepi aveva impresso viveva nel culto dei discepoli e, pur crollate le mura entro le quali la sua parola aveva avuto le risonanze più alte, pareva che gli echi fossero ancora diffusi nell’aria. E pel ricordo delle lunghe battaglie, in cui i due uomini si erano incontrati e scontrati, sembrava che la parola del sopravvissuto richiamasse sempre il suono ancor vivo dell’altro.
Ma anche quelli giunti alla vita forense sino a qualche tempo dopo la morte di lui, ne avevano ascoltate le arringhe più belle, lo avevano seguito nei più aspri dibattiti per la irradiazione che allora le lotte forensi avevano fra le persone di coltura, consuetamente richiamate nelle Corti e nei Tribunali quando la parola dell’uno o dell’altro di quei valenti (quasi sempre di entrambi in contrasto) era annunciata.
Difficile è dire se la posizione antitetica che il caso quasi costantemente ad essi assegnava nei dibattiti forensi fosse soltanto riflesso del contrasto politico.
Certo essi erano fatti per fondersi in un’armonia di contrari e per contrastarsi – come avvenne – palmo a palmo il terreno nell’urto delle più opposte qualità personali. C’è soprattutto fra essi un’antitesi intima e profonda del temperamento; e questa, in uomini dotati di un ingegno e di una volontà di eccezione, esprimeva due concezioni, due modi, direi quasi di sensi della vita.
La persona fisica ne era come lo specchio.
Aitante, gagliardo Biagio Camagna; il gesto spontaneamente gladiatorio (in ogni atto mostrava di sentire immanente per sé la vittoria), la voce chiara e possente. Sembrava nato per capeggiare rivolte di oppressi. Quando si era creato un giornale, l’aveva chiamato Spartaco.
Piccolo di statura, esilissimo, Demetrio Tripepi, nell’ora del dibattito tutto un fascio saettante di nervi protesi allo scopo; il gesto signorilmente severo; la voce penetrante, con risonanze metalliche, mentre un caratteristico singulto le dava talvolta un risalto di toni che avvivava l’emozione degli ascoltatori. Pareva un trovadore togato, che godesse di accordare la sua lira sui toni più delicati del sentimento.
Quello giungeva talvolta all’udienza con poche conoscenze del processo, eppure già pronto a prendere di assalto le posizioni avverse che sembravano più salde, agitando la parola favorevole di un perito o di un teste, dilatandola sino a dare la sensazione che non ci fosse quella.
L’altro riportava la forza di un pensiero meditato nello studio più attento e profondo degli atti della causa e la sua tesi si plasmava di tutte le voci, si animava di tutti i colori che poteva offrire il processo.
Ricordo un dibattimento di Assise per un grave delitto: l’operaio di un opificio aveva ucciso il direttore.
Quei due avvocati, come sempre, in contrasto.
Sorge un incidente, nella discussione del quale entra un particolare profilo della rubrica, che non era stato tenuto presente.
E l’uno si leva e con tono fermo, con gli occhi che lampeggiano dice, e dicendo ammonisce: «Enrico Pessina ci segnala che i processi si studiano dalla copertina».
E quando l’altro ribatte, lancia una frase napoleonica, della quale è questo pressappoco il senso: a me basta il lampo di un secondo per la tua fatica di un’ora».
Era come se entrambi si confessassero.
Grandi entrambi, eppure tanto diversi.
Accanto alla differenza del temperamento – e forse in conseguenza di questa – la differenza di preparazione culturale. In uno per grandi linee maestre, delle quali scendeva luce ai singoli casi del diritto ed alle conoscenze letterarie ed artistiche; nell’altro in profondità ed in dettaglio.
E ciascuno, anche in questo campo, le sue predilezioni, che si rivelavano a sprazzi, spontaneamente nella orazione.
In un’antica pagina dell’Eloquenza – la rivista in cui l’inobliabile Antonio Russo, con anima elettissima di italiano e di avvocato, compose le strofe più belle della grande parola d’Italia, e che lo studio ed il cuore appassionato di A. Raffaele Russo animano ancora del sogno di quel maestro – è tratteggiata superbamente una figura di oratore tradizionale, che i tempi mutati non hanno fatto del tutto sparire: l’oratore della città, quello che sorge quando «all’annunzio di una vittoria, alla notizia di un lutto, a una festa che ricorre, per un’ansia che li affanni, in una questione che interessi la vita e il destino della città, i cittadini distratti dalle loro occupazioni, escono dalle case, invadono le vie e le piazze; i crocchi formatisi si raggruppano, si fondono e la folla si forma, semplificandosi nella espressione quando più si ingrossa nelle proporzioni. E nell’urlo, che è come il suo respiro, e nell’ondeggiare incomposto di tante volontà costrette, urge il bisogno di un cuore e di una voce: essa chiede il suo caldo cuore e la sua nota voce. L’oratore si leva; il silenzio si forma. Egli – sente ciascuno – dirà la parola di tutti; poi dirà la parola che ciascuno ripeterà».
Demetrio Tripepi e Biagio Camagna furono anche in questo senso gli oratori della città. Ma, mentre pure avrebbero potuto parlare in tante occasioni l’uno al posto dell’altro; accadde – segno non soltanto di situazioni politiche, ma di temperamenti, di predilezioni culturali, di orientazioni spirituali diverse – che per commemorare Mentana o per rievocare il moto antiborbonico del 2 settembre 1847 sfolgorasse l’eloquenza di Biagio Camagna; e per celebrare una festa floreale e per salutare dei giovanetti addentratisi in una delle prime palestre ginnastiche, si trovasse in una vibrazione di bellezza, viva di poesia e fastosa di classico pensiero, la parola di Demetrio Tripepi.
Il contrasto che li divise nelle assemblee, nel Parlamento, nel Foro è ora tutto placato nella luce del ricordo che i due nomi confonde e sovente si ravviva nelle aule di giustizia della risorta città, ov’è ancora chi sente la nostalgia della loro parola»
- Sardiello, Il viandante e la via, Edzioni “La Toga” – Napoli, pp. 24-29.